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9.01 – Biotecnologie

9.01 – Biotecnologie

Ultimo aggiornamento: 30/07/2023

Le biotecnologie sono la branca della scienza che permette di ricavare da particolari sostanze organiche altre sostanze di natura diversa. L’uomo utilizza le biotecnologie fin dall’antichità per i propri bisogni e necessità. La fermentazione è un esempio di biotecnologia.

L’ingegneria genetica

Oggi è possibile effettuare interventi mirati che permettono di modificare il genoma manipolando direttamente il DNA. In questo modo è possibile decidere a priori quali caratteristiche introdurre in una pianta o in un animale, agendo sul patrimonio genetico “a monte” e non sul fenotipo “a valle”. Le tecnologie utilizzate per questo tipo di operazioni fanno parte di una disciplina chiamata ingegneria genetica o tecnologia del DNA ricombinante che comprende una serie di metodi per trasferire geni da un organismo a un altro, anche di specie differenti (transgenesi). Lo sviluppo dell’ingegneria genetica si basa su tre fattori principali:

  • L’universalità del codice genetico che viene letto allo stesso modo da tutte le cellule
  • La scoperta degli enzimi di restrizione capaci di tagliare in DNA in punti specifici
  • La messa a punto delle tecniche di “amplificazione genica” che consentono di ottenere molte copie di un frammento di DNA

Tale tecnica presenta 4 fasi principali:

  1. Identificare il gene
  2. Tagliarlo e trasferirlo
  3. Unire il gene ad un vettore che lo porti a destinazione
  4. Trasferirlo nella cellula ricevente

Gli altri ambiti delle biotecnologie

Oltre alla genetica sono state sviluppate altre biotecnologie che permettono di lavorare sugli organismi e sulle loro parti. Ne è un esempio l’ingegneria tissutale che permette di riprodurre in vitro organi e tessuti per i trapianti; o l’analisi del DNA applicata nell’indagine forense e in medicina.

La manipolazione del DNA ha fatto però sorgere molte questioni etiche che mantiene vivo il dibattito sui limiti di tale manipolazione; ciò interessa il campo della bioetica.

Gli enzimi di restrizione

Nel 1978 i ricercatori Werner Arber, Daniel Nathans e Hamilton O. Smith ricevettero il premio Nobel per la medicina per la scoperta delle endonucleasi di restrizione dette anche enzimi di restrizione. Quest’ultimi devono il loro nome alla loro capacità di tagliare il DNA virale in una cellula batterica rendendolo inoffensivo, “restringendo” quindi le possibilità che il virus infetti il batterio.

I punti specifici in cui il DNA viene tagliato prendono il nome di “siti di restrizione”. Un sito di restrizione è una particolare sequenza di DNA costituita generalmente da 4-8 paia di basi tipica per ciascun enzima di restrizione. Essi hanno poi la caratteristica di essere palindromici: presentano cioè la stessa sequenza di basi su entrambi i filamenti nella direzione di lettura 5’->3’. Gli enzimi di restrizione sono poi omodimeri, costituiti cioè da due subunità uguali.

Gli enzimi di restrizione agiscono sempre su filamenti di DNA estraneo, in quanto questo processo non solo viene usato come difesa, ma non attacca mai l’organismo produttore poiché esso impedisce l’attacco attraverso la metilazione, ovvero l’aggiunta di -CH3 in modo da rendere impossibile il taglio.

Oggi sono noti un centinaio di enzimi di restrizione divisi in tre categorie (I-II-III) che prendono il nome dai batteri nei quali sono stati trovati. Il primo enzima studiato fu l’EcoRl di Escherichia coli che quando agisce, genera al taglio due estremità complementari dette coesive.

A seconda della sequenza e della lunghezza, un frammento di DNA può contenere più siti di restrizione, quindi se trattato con uno o più enzimi di restrizione è possibile ottenere da esso frammenti di DNA di lunghezza diversa detti frammenti di restrizione le cui dimensioni sono misurate in bp (base paris, ovvero coppie di basi) o suoi multipli.

I frammenti ottenuti grazie agli enzimi di restrizione vengono poi legati dalla DNA ligasi in grado di catalizzare la formazione di legami fosfodiestere tra i nucleotidi più esterni dei frammenti di restrizione. Grazie a questa operazione è possibile isolare un frammento di DNA e trasportarlo in un altro frammento di DNA. Ciò comporta una ricombinazione e il DNA risultante viene chiamato DNA ricombinante.

L’analisi del DNA mediante elettroforesi

Una volta che il DNA è stato tagliato utilizzando gli enzimi di restrizione, i singoli frammenti possono essere separati gli uni dagli altri utilizzando la dell’Elettroforesi su gel. Questa tecnica consiste nel far migrare i frammenti di DNA attraverso un gel (in genere l’agarosio, un polisaccaride estratto dalle alghe marine) sottoponendoli ad un campo elettrico. Il DNA infatti grazie alla presenza di gruppi fosfato, ha una carica negativa e quindi, in presenza di un campo elettrico si muove verso il polo positivo.

I frammenti di DNA vengono posti in dei pozzetti scavati nel gel dal lato della carica negativa. Attivato il campo elettrico, i frammenti iniziano a migrare e il gel crea una rete che ostacola le sequenze di DNA più lunghe lasciando scendere (verso il polo positivo) le sequenze più brevi più velocemente. Per poter vedere chiaramente i frammenti di DNA, essi vengono colorati con colorante fluorescente.

Quello che si ottiene alla fine dell’applicazione di questa tecnica è una serie di bande fluorescenti ciascuna costituita da frammenti di DNA della stessa lunghezza. Per identificare la dimensione dei frammenti, solitamente oltre ai campioni da analizzare, viene fatto migrare un miscuglio chiamato “gene marcatore di peso molecolare” composto da una serie di frammenti di DNA di lunghezza nota.

La reazione a catena della polimerasi (PCR)

La reazione a catena della polimerasi o PCR è una tecnica rapida ed economica che permette di creare numerose copie di uno stesso tratto di DNA in poco tempo. Essa è caratterizzata da una DNA polimerasi capace di resistere alle alte temperature: la Taq polimerasi. Per copiare in modo specifico un tratto di DNA si utilizzano delle molecole composte da 15-20 nucleotidi chiamate primer compatibili agli estremi 3’ dei due filamenti del tratto da copiare. I primer determinano quindi la parte di DNA che deve essere copiata dalla Taq polimerasi.

La PCR prevede tre passaggi che si ripetono per più cicli:

  1. La denaturazione: si la temperatura sopra i 90°C per rompere i legami a idrogeno e separare le due eliche del DNA
  2. L’ibridazione: la temperatura vinee abbassata fino a 40-65° e i primer si ibridano con le sequenze complementari presenti sui due filamenti
  3. L’allungamento: la temperatura viene portata a 72°, ideale per l’azione della Taq polimerasi, la quale attiva la sintesi dei filamenti complementari partendo dal primer.

L’esito della PCR è verificato con l’elettroforesi su gel.

Il sequenziamento del DNA

Sequenziare il DNA significa determinare l’ordine in cui sono disposti i nucleotidi che lo compongono, ovvero l’ordine delle basi azotate. Sequenziare anche i genomi più complessi fu possibile dal 1975 quando il chimico britannico Frederik Sanger mise a punto una nuova tecnica di sequenziamento che gli fece ottenere il suo secondo Nobel nel 1980.

La tecnica consisteva nell’utilizzo dei desossiribonucleosidi nei quali, al posto del normale 2’-desossiribosio, era stato inserito il 2’,3’-desossiribosio. La mancanza del gruppo -OH sul C3’ determina l’impossibilità di formare i legami fosfodiestere che normalmente consentono ai nucleotidi di legarsi tra loro formando un ponte 3’-5’. Questi nucleotidi vengono definiti didesossiribonucleosidi trifosfato (ddNTP), mentre quelli normali sono desossiribonucleosidi trifosfato (dNTP)

Il metodo Sanger

Il metodo Sanger è composto da 4 fasi:

  1. In una provetta il DNA viene frammentato e denaturato, ottenendo DNA a filamento singolo e vengono aggiunti la DNA polimerasi che dovrà sintetizzare il filamento complementare al filamento stampo
  2. Durante la sintesi del nuovo filamento la DNA polimerasi aggiunge nuovi nucleotidi ma quando casualmente utilizza un ddNTP invece di un dNTP la sintesi del filamento si blocca per l’impossibilità di legare altri nucleotidi.
  3. I frammenti vengono sottoposti ad elettroforesi
  4. Un lettore ottico individue il ddNTP terminale in ciascun frammento e invia i dati ad un computer dotato di un software che crea un grafico con picchi corrispondenti ai diversi nucleotidi, dai quali è possibile ricavare la sequenza delle basi azotate.

La tecnica è stata velocizzata da alcune macchine chiamate sequenziatori che automatizzano il processo.

La clonazione del DNA

Clonare significa fare una copia identica, o clone, di un oggetto: in biologia si utilizza questo termine per indicare la copia di un gene, di una cellula o di un intero organismo. (es. di clonazione: in natura, mitosi di una cellula; nel regno animale, i gemelli monozigoti).

La clonazione è molto usata in laboratorio per clonare singoli frammenti di DNA. Si utilizzano in questo caso le tecniche del DNA ricombinante. Il gene di interesse viene prima isolato dalla cellula che lo possiede (per esempio, usando gli enzimi di restrizione oppure amplificando con la PCR il tratto di interesse), poi viene inserito in una cellula ospite, che può essere procariote o eucariote, tramite un vettore. Per stabilire con sicurezza se il gene è veramente stato incorporato nella cellula ospite, solitamente esso viene inserito insieme a un altro gene, la cui espressione fenotipica è chiaramente riconoscibile; per esempio, può rendere colorate o resistenti all’uso di antibiotici le cellule che lo incorporano

I vettori

 I vettori sono sistemi utilizzati per trasportare e moltiplicare frammenti di DNA all’interno delle cellule. Essi sono capaci di duplicarsi autonomamente e devono essere più piccoli del genoma della cellula ospite. Essi possono essere:

  • Virus
  • Plasmidi
  • Cromosomi artificiali

I virus penetrano nelle cellule ospiti: viene inserito il gene d’interesse nel genoma virale e il virus lo trasferisce nel batterio o nella cellula eucariote infetta. Solitamente i virus permettono l’inserzione del DNA direttamente nel genoma dell’ospite: in questo modo il DNA inserito si duplica insieme al DNA della cellula ospite.

I plasmidi spesso contengono un gene marcatore e un gene che determina la resistenza ad un antibiotico; pertanto se la cellula batterica trattata con il plasmide manifesta tale resistenza, significa che essa ha incorporato il vettore e quindi il gene d’interesse. Contengono poi molti enzimi di restrizione usati per tagliare il plasmide e inserire in esso il tratto di DNA di interesse, tagliato con gli stessi enzimi. È poi presente un promotore che rivela l’eventuale gene introdotto.

I cromosomi artificiali sono costruiti in laboratorio. Tra questi abbiamo quelli del lievito Saccharomyces cerevisiae quando il lievito si moltiplicherà per la gemmazione, si otterranno in poco tempo numerose copie del gene inserito.

La clonazione dei plasmidi

I plasmidi batterici sono il principale vettore utilizzato per far produrre ai batteri o ai lieviti proteine ricombinanti (es. l’ormone della crescita umano). Il procedimento si basa sull’impiego dello stesso enzima di restrizione per tagliare sia il DNA umano sia quello del plasmide. I frammenti ottenuti possono essere uniti usando una DNA ligasi; si ottiene così un plasmide ricombinante. Quest’ultimo viene inserito in batteri ospiti che acquisiscono la capacità di sintetizzare la proteina umana, grazie all’universalità del codice genetico. Moltiplicandosi per scissione binarla, il batterio produce molte cellule figlie identiche, tutte gene umano, dalle quali possono essere estratte le proteine ricombinanti.

La clonazione con la trascrittasi inversa

In alcune situazioni, invece di clonare il DNA, si preferisce partire dall’mRNA. Esso però per poter essere clonato deve essere prima convertito in DNA. L’mRNA viene quindi trattato con l’enzima trascrittasi inversa, che lo trascrive producendo una molecola di DNA complementare (cDNA).

Le genoteche

L’intero genoma di un organismo può essere frammentato (attraverso gli enzimi di restrizione) e conservato in quelle che vengono definite genoteche o librerie genomiche. Così i vari frammenti possono essere prelevati e utilizzati per varie applicazioni.

La clonazione degli organismi eucarioti

Nel 1938 Hans Spemann ipotizzò che fosse possibile trasferire il nucleo di una cellula somatica dentro una cellula uovo enucleata per produrre un organismo identico a quello da cui deriva il nucleo. La cosa al tempo era irrealizzabile ma vennero condotti degli esperimenti. Joachim Hammerling nel 1930 cercò di clonare un’alga marina, la cui “copia” alla fine dell’esperimento presentava i caratteri trasmessigli dalla prima. Clonare gli animali è però più difficile. Nel 1952 degli scienziati cercarono di clonare una rana inserendo in essa una cellula embrionale di un’altra rana ma l’esperimento fallì. Nel 1970 invece, John Gordon riuscì a clonare un rospo sostituendo il nucleo di una cellula uovo con il nucleo di una cellula intestinale di girino. Con una tecnica analoga nel 1984 furono ottenuti cloni di pecore partendo ca cellule embrionali.

La clonazione della pecora Dolly

La svolta però arrivò nel 1996 quando lo scozzese Ian Wilmut usò cellule prelevate da una pecora adulta anziché embrionali. Sebbene non fosse la prima clonazione in assoluto, era la prima a partire da un individuo adulto. Egli dimostrò così che anche le cellule adulte di mammifero mantengono nel proprio nucleo il potenziale per dare origine ad un nuovo organismo. Wilmut impiegò due varietà di pecore:

  • Dorset (bianche)
  • Scottish blackface (con il muso nero)

Egli prelevò una cellula uovo dalla pecora Scottish, le tolse il nucleo (aploide) e fuse ciò che restava nella cellula col nucleo (diploide) di una mammaria di pecora Dorset. La cellula ottenuta era quindi diploide e riuscì a svilupparsi in un embrione che fu impiantato nell’utero della pecora Scottish blackface. Nacque una pecorella, chiamata Dolly, del tutto bianca (Dorset) ed era geneticamente identica alla pecora donatrice del nucleo diploide.

Le colture cellulari

Le colture possono essere isolate dagli organismi e coltivate in laboratorio dentro contenitori che possono essere inseriti in dispositivi chiamati incubatori che permettono di mantenere sotto controllo temperatura e umidità.

Le colture di cellule vegetali

Le cellule vegetali sono adatte alle colture in vitro. Per ottenere delle piante da singole cellule, si preleva un frammento di tessuto dalla pianta da clonare e lo si inserisce in una provetta e lo si tratta con fattori di crescita (ormoni che stimolano la divisione cellulare) per favorire la proliferazione.

Le colture di cellule animali e le cellule staminali

Le colture animali richiedono tecniche più complesse ma hanno molte funzioni come la produzione di vaccini o di farmaci. Un tipo di coltura di coltura di cui si parla molto è quello delle cellule staminali. Le cellule staminali embrionali possono essere:

totipotenti: quando nello stato embrionale possono dar vita a tutti i tipi di tessuto

pluripotenti: quando cominciano a specializzarsi nella produzione di tessuti specifici

Esse in condizioni di coltura ottimali si dividono potenzialmente all’infinito.

Negli umani adulti sono presenti cellule staminali che possono dare origine ad un numero molto ristretto di tipi di cellule e sono dette multipotenti.

Il processo che nelle cellule porta alla perdita della potenzialità di dare origine a più tipi cellulari (differenziamento) è determinato da una modulazione fine della regolazione genica: vengono attivati ​​progressivamente più geni, fino a lasciare accesi, nelle cellule differenziate.  solo quelli necessari a svolgere la funzione a cui esse sono destinate.

Le mappe genetiche

Le mappe genetiche descrivono la posizione di ciascun gene su un cromosoma. I primi ad essere stati mappati sono i genomi di alcuni procarioti tra i quali Escherichia coli. Una delle più importanti scoperte deriva proprio dalla mappatura del genoma del moscerino da frutta (Drosophila melanogaster) ed è che il numero dei suoi geni è inferiore a quello delle proteine che è in grado di sintetizzare. Da ciò si deduce che lo stesso gene può determinare la sintesi di proteine differenti, grazie al fenomeno dello splicing alternativo.

Il progetto genoma umano

Una grande sfida è stata mappare il genoma umano, composto da circa 3 miliardi di paia di basi. Dopo alcuni esperimenti, nel 1990, il Congresso degli Stati Uniti avviò il Progetto Genoma umano, portato avanti dalla HUGO (Human Genome Oragnization), che raccolse l’adesione di molti Paesi del mondo. Il genoma umano fu frammentato e ogni Paese ebbe il compito di decifrarne un frammento. All’Italia toccò un tratto del cromosoma X. Il progetto vide due istituzioni in gara: la Celera Genomics e la National Institute of Health. (NIH). La prima delle due terminò il progetto per prima. I dati raccolti sono ora analizzati e studiati da un altro progetto internazionale, ENCODE (Encyclopedia of DNA Elements), il cui obbiettivo è descrivere le funzioni di ogni singola parte del genoma umano.

Oggi conosciamo il 99% del nostro genoma, poiché alcuni tratti sono ancora difficili da analizzare.  In base a tali risultati, abbiamo scoperto che possediamo, secondo le stime più recenti, tra 20 000 e 25 000 geni.  Solo una piccolissima parte del DNA, circa l’1,5%, costituita da DNA che codifica per proteine, mentre maggior parte è rappresentata da sequenze la cui funzione è ancora oggetto di studi. 

Le applicazioni delle biotecnologie

La terapia genica

Gli enzimi di restrizione vengono usati come terapia genica, ovvero come tecnica che permette di guarire alcune patologie. Essi hanno due scopi principali:

RICOMBINAZIONE

• Terapia genica a livello delle cellule germinali Molto utile per eliminare le mutazioni e le patologie che si riversano sulla discendenza; la terapia va ad agire sull’embrione nelle prime fasi (quando è in fase di gastrula) anche se solleva molti problemi di carattere bioetico;

• Terapia genica a livello delle cellule somatiche Si limita ad un miglioramento dell’organismo, senza effetti sulla discendenza.

COME FUNZIONANO GLI ENZIMI DI RESTRIZIONE

Gli enzimi di restrizione agiscono frammentando il DNA per ricavare dei filamenti più corti. Questa applicazione ha svariati utilizzi, primo tra tutti stabilire i rapporti parentali (analizzando un eventuale polimorfismo della lunghezza dei frammenti di restrizione) o identificativi di un individuo. Questa tecnica, che prende il nome di genetic fingerprinting (impronta genetica), si basa sul considerare geni polimorfi (ovvero geni che hanno vari alleli e quindi varie caratteristiche). Essi sono di due tipi:

1. Polimorfismi da singolo nucleotide (SNP) Variano per una sola base azotata.

2. Ripetizioni brevi in tandem (STR) Sono tratti di DNA che presentano delle sequenze di circa 2-10 basi che si ripetono più volte, una di seguito all’altra.

È una condizione ereditaria, per cui il figlio avrà tutti e due i frammenti di restrizione. Inoltre, le ripetizioni sono diverse da individuo ad individuo, e l’analisi completa delle STR porta all’identificazione del genoma di ogni individuo, con caratteristiche diverse ‘uno dagli altri.

COME SI RICOMBINANO I FRAMMENTI DI RESTRIZIONE

Il primo passo per ricombinare il DNA è stato fatto analizzando il comportamento della classe enzimatica delle DNA ligasi, che uniscono al DNA duplicato i frammenti di Okazaki. I frammenti di restrizione terminano con delle sequenze a singolo filamento, a cui si attacca un altro frammento che abbia estremità complementare all’altro. Queste estremità prendono il nome di sticky hands (o estremità coesive). La complementarietà delle estremità dei frammenti è una condizione necessaria affinché il DNA si possa ricombinare; perciò queste estremità devono essere tagliate dal medesimo enzima di restrizione.